Documenti della Chiesa

lunedì 27 ottobre 2025

Pillole di liturgia, IL CINGOLO - storia uso e significato



In questo terzo post dedicato ai paramenti sacri (QUI il primo sull'amitto e QUI il secondo sull'alba), accenniamo ad un accessorio che sembra essere quello più semplice e logico nel suo uso. Questo però non significa che non abbia simbolismi importanti, e non giustifica affatto un suo disprezzo. Si assiste oggi nell'ambito della nuova Messa, ad un abbandono sempre più frequente di questo paramento, sorte che purtroppo capita anche per altri paramenti come ad esempio il camice o la stola, anche se più di rado.


Origine

Vediamo innanzitutto l'origine di questo accessorio.

Come abbiamo visto nei post precedenti, l'abbigliamento liturgico deriva in larga parte dall'abbigliamento romano. Il Cingolo era un accessorio quasi indispensabile della tunica, e con essa passò anche nel vestiario liturgico. Nella Chiesa gallicana veniva usata solo dai chierici insigniti degli ordini maggiori.

I cingoli utilizzati nel medioevo erano per lo più di lino e avevano la forma di una fascia larga circa sei o sette centimetri che si legava tramite una fibbia o di appositi legacci. Il cingolo a forma di cordone come lo conosciamo oggi se ne parlava molto di rado e divennero comuni solo dopo il XV secolo. Su questa fascia venivano spesso ricamati motivi floreali, animali e inserite pietre preziose e lamine d'oro e d'argento. La tradizione orientale ha conservato quest'uso ancora oggi di questa fascia ricamata e ornata chiamata in greco ζώνη (zone).



Funzione

La funzione del cingolo è quanto mai intuitiva, serve a stringere i fianchi non solo l'alba ma a tenere ferma anche la stola. Infatti nell'uso orientale viene posta sopra di essa proprio per fermarla, mentre nell'uso romano - e occidentale in genere - viene legata con le parti finali del cingolo. 


Significato

Come spesso accade nella storia della liturgia, molti accessori vengono utilizzati per scopi puramente pratici, ma con il tempo acquistano significati simbolici e allegorici. Il cingolo in particolare, avvolgendo la parte lombare, assume un significato legato alla castità e alla purezza. In questo senso è molto esplicativa la preghiera che il sacerdote recita mentre la indossa:

"Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et exstingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis" 

Traduzione: "Cingimi, Signore, con il cingolo della purezza e prosciuga nel mio corpo la linfa della libidine, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità".



Pur essendo considerato spesso un accessorio minore, il cingolo acquista un significato importante non solo dal punto di vista pratico, ma anche e soprattutto simbolico e spirituale. L'abitudine ormai diffusa nella liturgia post-conciliare di ometterlo durante le celebrazioni - questo vale per tutti i paramenti - non è solo una mancanza di rispetto per ciò che si va a compiere, ma una omissione che compromette la sacralità del rito stesso. Anche se apparentemente sembra non essere un grave problema, in realtà la sua omissione danneggia l'estetica del sacerdote celebrante, apparendo sciatto e in alcuni casi goffo, di conseguenza anche la sacralità stessa degli atti sacerdotali sono privati di quella eleganza che deve essere intrinseca all'immagine del sacerdote e della dignità di cui è rivestito. Purtroppo il Messale di Paolo VI prevede che in alcuni casi, il cingolo può essere omesso, se ad esempio il camice aderisce ai fianchi. Questa possibilità però sminuisce notevolmente l'uso e il significato simbolico del cingolo, riducendolo ad un accessorio meramente pratico.

I sacerdoti che ogni giorno si accingono a salire i gradini dell'altare, abbiano cura e rispetto di questo accessorio che come dimostrato, ha un'importanza non solo pratica ma anche storica e spirituale.




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Fonti:

Mario Righetti, STORIA LITURGICA. vol. 1 pagg. 594.




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venerdì 24 ottobre 2025

QUAS PRIMAS, Una enciclica incredibilmente semplice e attuale sulla Regalità di Nostro Signore.



Cari lettori, la prossima domenica - ultima del mese di ottobre - celebreremo la festa di Cristo Re. Questa festa fu istituita da papa Pio XI nel 1925, quest'anno quindi ricorrono i cento anni dalla sua istituzione e all'ora come oggi ci si trovava nel pieno di un anno giubilare.

La festa di Cristo Re è strettamente legata alla festa di Ognissanti. Pio XI infatti volle che questa festa fosse celebrata proprio l'ultima domenica di ottobre affinché fosse il più vicina possibile alla festa in cui si celebra la gloria di coloro che hanno testimoniato la grandezza e la regalità di Nostro Signore nella propria vita.

Come sappiamo, dopo la riforma del Vaticano II questa festa è stata spostata all'ultima domenica dell'anno liturgico, impoverendola di questo legame mistico-spirituale.

Pio XI voleva che la regalità di Cristo non fosse solo una vaga onorificenza che coinvolgeva la devozione del popolo santo  di Dio, ma un vero e proprio riconoscimento della supremazia di Cristo Gesù su tutti gli uomini e su tutte le attività umane. Questa supremazia va in netto contrasto con l'idea laicista che ormai dilaga nelle culture di quasi tutti i popoli. Ecco spiegato il motivo per il quale oggi questa festa viene celebrata non solo in un giorno diverso, ma anche con una mentalità diversa e a volte senza nessuna solennità.

Riconoscere la regalità di Nostro Signore significa riconoscergli dei diritti, fondare le leggi terrene su quelle divine, trattarlo da vero Re rispettando gli statuti del suo Vangelo e della Sua dottrina. Significa riconoscere che la sua regalità non è simbolica ma reale, che è Dio e che tutto deve essere rivolto a lui e svolto secondo le sue logiche, spesso diverse da quelle umane e personali.

L'Enciclica che oggi propongo alla vostra lettura, entra in questi dettagli e li argomenta in maniera facile e comprensibile, permettendo anche a chi non ha conoscenze approfondite di dottrina o di teologia di comprendere a fondo il tema trattato.

Buona lettura!


don Bastiano Del Grillo


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ENCICLICA

"QUAS PRIMAS"

DI S. S. PIO XI

"SULLA REGALITÀ DI CRISTO"


AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE PACE E COMUNIONE

PIO PP. XI SERVO DEI SERVI DI DIO VENERABILI FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE


Introduzione

Nella prima Enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell'Orbe cattolico - mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano - ricordiamo d'aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l'impero di Cristo Salvatore.

Pertanto, come ammonimmo che era necessario ricercare la pace di Cristo nel Regno di Cristo, così annunziammo che avremmo fatto a questo fine quanto Ci era possibile; nel Regno di Cristo - diciamo - poiché Ci sembrava che non si possa più efficacemente tendere al ripristino e al rafforzamento della pace, che mediante la restaurazione del Regno di Nostro Signore.

Frattanto il sorgere e il pronto ravvivarsi di un benevolo movimento dei popoli verso Cristo e la sua Chiesa, che sola può recar salute, Ci forniva non dubbia speranza di tempi migliori; movimento tal quale s'intravedeva che molti i quali avevano disprezzato il Regno di Cristo e si erano quasi resi esuli dalla Casa del Padre, si preparavano e quasi s'affrettavano a riprendere le vie dell'obbedienza.

L'Anno Santo e il Regno di Cristo

E tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l'onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore?

Infatti, la Mostra Missionaria Vaticana quanto non colpì la mente e il cuore degli uomini, sia facendo conoscere il diuturno lavoro della Chiesa per la maggiore dilatazione del Regno del suo Sposo nei continenti e nelle più lontane isole dell'Oceano; sia il grande numero di regioni conquistate al cattolicesimo col sudore e col sangue dai fortissimi e invitti Missionari; sia infine col far conoscere quante vaste regioni vi siano ancora da sottomettere al soave e salutare impero del nostro Re.

E quelle moltitudini che, durante questo Anno giubilare, vennero da ogni parte della terra nella città santa, sotto la guida dei loro Vescovi e sacerdoti, che altro avevano in cuore, purificate le loro anime, se non proclamarsi presso il sepolcro degli Apostoli, davanti a Noi, sudditi fedeli di Cristo per il presente e per il futuro?

E questo Regno di Cristo sembrò quasi pervaso di nuova luce allorquando Noi, provata l'eroica virtù di sei Confessori e Vergini, li elevammo agli onori degli altari. E qual gioia e qual conforto provammo nel- l'animo quando, nello splendore della Basilica Vaticana, promulgato il decreto solenne, una moltitudine sterminata di popolo, innalzando il cantico di ringraziamento esclamò: Tu Rex gloriæ, Christe!

Poiché, mentre gli uomini e le Nazioni, lontani da Dio, per l'odio vicendevole e per le discordie intestine si avviano alla rovina ed alla morte, la Chiesa di Dio, continuando a porgere al genere umano il cibo della vita spirituale, crea e forma generazioni di santi e di sante a Gesù Cristo, il quale non cessa di chiamare alla beatitudine del Regno celeste coloro che ebbe sudditi fedeli e obbedienti nel regno terreno.

Inoltre, ricorrendo, durante l'Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l'avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell'Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula "il regno del quale non avrà mai fine", proclamò la dignità regale di Cristo.

Avendo, dunque, quest'Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi sia individualmente, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll'introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re.

Questa cosa Ci reca tanta gioia che Ci spinge, Venerabili Fratelli, a farvene parola; voi poi, procurerete di adattare ciò che Noi diremo intorno al culto di Gesù Cristo Re, all'intelligenza del popolo e di spiegarne il senso in modo che da questa annua solennità ne derivino sempre copiosi frutti.


I

GESÙ CRISTO È RE

Gesù Cristo Re delle menti, delle volontà e dei cuori

Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l'appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovreminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l'altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana ("Supereminentem scientiae caritatem", cfr. Ef. 3, 19) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo.

Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l'onore e il regno, (Dan. 7, 14) perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.

La Regalità di Cristo nei libri dell'Antico Testamento.

E non leggiamo infatti spesso nelle Sacre Scritture che Cristo è Re ? Egli invero è chiamato il Principe che deve sorgere da Giacobbe (Num. 14, 19), e che dal Padre è costituito Re sopra il Monte santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra (Ps. 2, 6). Il salmo nuziale, col quale sotto l'immagine di un re ricchissimo e potentissimo viene preconizzato il futuro Re d'Israele, ha queste parole: "II tuo trono, o Dio, sta per sempre, in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale" (Ps. 44, 6).

E per tralasciare molte altre testimonianze consimili, in un altro luogo per lumeggiare più chiaramente i caratteri del Cristo, si preannunzia che il suo Regno sarà senza confini ed arricchito coi doni della giustizia e della pace: "Fiorirà ai suoi giorni la Giustizia e somma pace... Dominerà da un mare all'altro, e dal fiume fino alla estremità della terra" (Ps. 44, 8). A questa testimonianza si aggiungono in modo più ampio gli oracoli dei Profeti e anzitutto quello notissimo di Isaia: " Ci è nato un bimbo, ci fu dato un figlio: e il principato è stato posto sulle sue spalle e sarà chiamato col nome di Ammirabile, Consigliere, Dio forte, Padre del secolo venturo, Principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Sederà sul trono di Davide e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora ed in perpetuo" (Is. 9, 6-7). E gli altri Profeti non discordano punto da Isaia: così Geremia, quando predice che nascerà dalla stirpe di Davide il "Rampollo giusto" che qual figlio di Davide "regnerà e sarà sapiente e farà valere il diritto e la giustizia sulla terra" (Jer. 23, 5); così Daniele che preannunzia la costituzione di un regno da parte del Re del cielo, regno che "non sarà mai in eterno distrutto... ed esso durerà in eterno" (Dan. 2, 44) e continua: "Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quand'ecco venire in mezzo alle nuvole del cielo uno con le sembianze del figlio dell'uomo che si avanzò fino al Vegliardo dai giorni antichi, e davanti a lui fu presentato. E questi gli conferì la potestà, l’onore e il regno; tutti i popoli, le tribù e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna che non gli sara mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto" (Dan. 7, 13-14). E gli scrittori dei santi Vangeli non accettano e riconoscono come avvenuto quanto è predetto da Zaccaria intorno al Re mansueto il quale "cavalcando sopra un’asina col suo piccolo asinello" (Zach. 9, 9) era per entrare in Gerusalemme, qual giusto e salvatore fra le acclamazioni delle turbe?

Gesù Cristo si è proclamato Re

Del resto questa dottrina intorno a Cristo Re, che abbiamo sommariamente attinto dai libri del Vecchio Testamento, non solo non viene meno nelle pagine del Nuovo, ma anzi vi è confermata in modo splendido e magnifico. E qui, appena accennando all'annunzio dell'arcangelo da cui la Vergine viene avvisata che doveva partorire un figlio, al quale Iddio avrebbe dato la sede di David, suo padre, e che avrebbe regnato nella Casa di Giacobbe in eterno e che il suo Regno non avrebbe avuto fine (Lc. 1, 32-33) vediamo che Cristo stesso dà testimonianza del suo impero: infatti, sia nel suo ultimo discorso alle turbe, quando parla dei premi e delle pene, riservate in perpetuo ai giusti e ai dannati; sia quando risponde al Preside romano che pubblicamente gli chiedeva se fosse Re, sia quando risorto affida agli Apostoli l'ufficio di ammaestrare e battezzare tutte le genti, colta l'opportuna occasione, si attribuì il nome di Re (Matth. 25, 31-40), e pubblicamente confermò di essere Re (Joh. 18, 37) e annunziò solennemente a Lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra (Matth. 28, 18). E con queste parole che altro si vuol significare se non la grandezza della potestà e l'estensione immensa del suo Regno?

Non può dunque sorprenderci se Colui che è detto da Giovanni "Principe dei Re della terra" (Apoc. 1, 5), porti, come apparve all'Apostolo nella visione apocalittica "scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti" (Apoc. 19, 16). Da quando l'eterno Padre costituì Cristo erede universale (Hebr. 1, 2), è necessario che Egli regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici (I Cor. 15, 25).

Da questa dottrina dei sacri libri venne per conseguenza che la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, salutò e proclamò nel ciclo annuo della Liturgia il suo autore e fondatore quale Signore sovrano e Re dei re, moltiplicando le forme della sua affettuosa venerazione. Essa usa questi titoli di onore esprimenti nella bella varietà delle parole lo stesso concetto; come già li usò nell'antica salmodia e negli antichi Sacramentari, così oggi li usa nella pubblica ufficiatura e nell'immolazione dell'Ostia immacolata. In questa laude perenne a Cristo Re, facilmente si scorge la bella armonia fra il nostro e il rito orientale in guisa da render manifesto, anche in questo caso, che "le norme della preghiera fissano i principi della fede".

Gesù Cristo è Re per diritto di natura e di conquista

Ben a proposito Cirillo Alessandrino, a mostrare il fondamento di questa dignità e di questo potere, avverte che "egli ottiene, per dirla brevemente, la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza" (In Lucam, 10); cioè il principato di Cristo si fonda su quella unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell'unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature.

Eppure che cosa più soave e bella che il pensare che Cristo regna su di noi non solamente per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione? Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: "Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d'argento siete stati riscattati... ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato" (I Petr. 1, 18-19). Non siamo dunque più nostri perché Cristo ci ha ricomprati col più alto prezzo (I Cor. 6, 20): i nostri stessi corpi sono membra di Cristo (I Cor. 6, 15).

Natura e valore del Regno di Cristo

Volendo ora esprimere la natura e il valore di questo principato, accenniamo brevemente che esso consta di una triplice potestà, la quale se venisse a mancare, non si avrebbe più il concetto d'un vero e proprio principato.

Le testimonianze attinte dalle Sacre Lettere circa l’impero universale del nostro Redentore, provano più che a sufficienza quanto abbiamo detto; ed è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire (Ss. Conc. Trid., Sess. VI, can. 21).

I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell'atto stesso di legiferare; e il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità (Joh. 15, 10). Lo stesso Gesù davanti ai Giudei, che lo accusavano di aver violato il sabato con l'aver ridonato la sanità al paralitico, afferma che a Lui fu dal Padre attribuita la potestà giudiziaria: "Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio" (Joh. 5, 22). Nel che è compreso pure il diritto di premiare e punire gli uomini anche durante la loro vita, perché ciò non può disgiungersi da una propria forma di giudizio. Inoltre la potestà esecutiva si deve parimenti attribuire a Gesù Cristo, poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite.

Regno principalmente spirituale

Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire.

In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno "non è di questo mondo".

Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla "potestà delle tenebre", e richiede dai suoi sudditi non solo l'animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell'uno e dell'altro ufficio?

Regno universale e sociale

D'altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall'esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: "Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli" (Brev. Rom. Inno del Mattutino dell'Epifania). Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: "L'impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo".

Né v'è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica: "Né in alcun altro è salute, né sotto il cielo altro nome è stato dato agli uomini, mediante il quale abbiamo da essere salvati" (Act. 4, 12), è lui solo l'autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati: "poiché il benessere della società non ha origine diversa da quello dell'uomo, la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini" (S. Agostino, Lettera a Macedone, III).

Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all'impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l'incolumità del loro potere, l'incremento e il progresso della patria. Difatti sono quanto mai adatte e opportune al momento attuale quelle parole che all'inizio del Nostro pontificato Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: "Allontanato, infatti - così lamentavamo - Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l'autorità appare senz'altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v'è ragione per cui uno debba comandare e l'altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali" (Pio Pp. XI, Enc. Ubi arcano Dei).

Regno benefico

Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l'intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l'autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza.

In questo senso l'Apostolo Paolo, inculcando alle spose e ai servi di rispettare Gesù Cristo nel loro rispettivo marito e padrone, ammoniva chiaramente che non dovessero obbedire ad essi come ad uomini ma in quanto tenevano le veci di Cristo, poiché sarebbe stato sconveniente che gli uomini, redenti da Cristo, servissero ad altri uomini: "Siete stati comperati a prezzo; non diventate servi degli uomini" (I Cor. 7, 23). Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell'esigerne l'esecuzione.

In tal modo, tolta ogni causa di sedizione, fiorirà e si consoliderà l'ordine e la tranquillità: ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l'immagine e l'autorità di Cristo Dio e Uomo.

Per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace, è manifesto che quanto più vasto è il regno e più largamente abbraccia il genere umano, tanto più gli uomini diventano consapevoli di quel vincolo di fratellanza che li unisce. E questa consapevolezza come allontana e dissipa i frequenti conflitti, così ne addolcisce e ne diminuisce le amarezze. E se il regno di Cristo, come di diritto abbraccia tutti gli uomini, cosi di fatto veramente li abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il Re pacifico portò in terra, quel Re diciamo che venne "per riconciliare tutte le cose, che non venne per farsi servire, ma per servire gli altri" e che, pur essendo il Signore di tutti, si fece esempio di umiltà, e questa virtù principalmente inculcò insieme con la carità e disse inoltre: "II mio giogo è soave e il mio peso leggero"? (Matth. 11, 30).

Oh, di quale felicità potremmo godere se gli individui, le famiglie e la società si lasciassero governare da Cristo! "Allora veramente, per usare le parole che il Nostro Predecessore Leone XIII venticinque anni fa rivolgeva a tutti i Vescovi dell'orbe cattolico, si potrebbero risanare tante ferite, allora ogni diritto riacquisterebbe l'antica forza, tornerebbero i beni della pace, cadrebbero dalle mani le spade, quando tutti volentieri accettassero l'impero di Cristo, gli obbedissero, ed ogni lingua proclamasse che nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre" (Leone Pp. XIII, Enc. Annum sanctum, 25.V.1899).


II

LA FESTA DI CRISTO RE

Scopo della festa di Cristo Re

E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun'altra cosa possa maggiormente giovare quanto l'istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re.

Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell'informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l'uomo insomma. Invero, essendo l'uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell'animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale.

D'altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l'altra, secondo che la necessità o l'utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell'era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché - come dice Sant’Agostino - le solennità dei Martiri fossero d'esortazione al martirio (Sant'Agostino, De Sanctis, Serm. 47). E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l'amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace.

E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori.

In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante.

Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell'anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l'augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l'ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall'amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza.

Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l'umana società.

Il "laicismo"

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto - che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo - di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.

I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica "Ubi arcano Dei" e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina.

Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità.

Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.

La preparazione storica della festa di Cristo Re

E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore.

Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo.

A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali.

E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione.

Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano.

In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l'impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.

L’istituzione della festa di Cristo Re

Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l'ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente.

In quest'anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare l'Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i benefici fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l'Orbe cattolico durante quest'Anno Santo.

E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale.

Basta infatti avvertire che mentre l'oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione.

Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti.

Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.

I vantaggi della festa di Cristo Re

Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re.

Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio.

Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti.

La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell'amministrare la giustizia, sia finalmente nell'informare l'animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi.

Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di coteste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana.

Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l'umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.


CONCLUSIONE

Cristo regni!

È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell'uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d'ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come "armi di giustizia" (Rom. 6, 13) offerte a Dio devono servire all'interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione.

Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria.

Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo, quarto del Nostro Pontificato.

PIO PP. XI


ATTO DI CONSACRAZIONE AL SACRO CUORE DI GESÙ

Da recitare per ordine di S. S. Pio XI nella Festa di Nostro Signore Gesù Cristo Re. Si può recitare anche in altre occasioni.

O Gesù dolcissimo, o Redentore del genere umano, riguardate a noi umilmente prostrati dinanzi al vostro altare. Noi siamo vostri, e vostri vogliamo essere; e per poter vivere a Voi più strettamente congiunti, ecco che ognuno si consacra al vostro Sacratissimo Cuore. Molti purtroppo non Vi conobbero mai; molti, disprezzando i vostri comandamenti, Vi ripudiarono. O benignissimo Gesù, abbiate misericordia e degli uni e degli altri; e tutti quanti attirate al vostro Cuore santissimo. O Signore, siate il re non solo dei fedeli, che non si allontanarono mai da Voi, ma anche di quei figli prodighi che Vi abbandonarono; fate che questi quanto prima ritornino alla casa paterna, per non morire di miseria e di fame. Siate il Re di coloro che vivono nell’inganno dell’errore, o per discordia da Voi separati; richiamateli al porto della verità e all’unità della fede, affinché in breve si faccia un solo ovile sotto un solo Pastore. Siate il Re di tutti quelli che sono ancora avvolti nelle tenebre dell’idolatria o dell’islamismo; e non ricusate di trarli tutti al lume e al regno vostro. Riguardate infine con occhio di misericordia i figli di quel popolo che un giorno fu il prediletto; scenda anche sopra di loro, lavacro di redenzione e di vita, il Sangue già sopra di essi invocato.

Largite, o Signore, incolumità e libertà sicura alla vostra Chiesa; largite a tutti i popoli la tranquillità dell’ordine; fate che da un capo all’altro della terra risuoni quest’unica voce; Sia lode a quel Cuore divino, da cui venne la nostra salute; a Lui si canti gloria e onore nei secoli. Così sia.

Segue la recita delle litanie del Sacro Cuore di Gesù.




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giovedì 23 ottobre 2025

La missionarietà di chi non è missionario

 


Nella Chiesa ci sono diversi carismi, diversi compiti, diverse operazioni dello spirito, questo deve portarci inevitabilmente ad una riflessione: non tutti possiamo fare tutto. Ognuno ha un compito affidatogli dalla Chiesa, o dal proprio stato di vita.

Si può essere missionari pur non essendo inviati in luoghi di missione? Certamente si! Bisogna solo comprendere in che modo. Ma prima ancora di comprendere le modalità è necessario comprendere la natura della missionarietà cristiana.

Primo dato importante e fondamentale è comprendere il Fine. La Chiesa ha come missione quella di trasmettere la fede in Gesù Cristo, la verità rivelata da Lui e l’amore infinito ci Dio per le sue creature in generale. L'evangelista Luca ci ricorda che “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio” (Lc.3,6). Chi deve mostrare questa salvezza? Colui che è stato amato da Dio e in cui il creatore ha riversato il suo amore salvifico.

La missione è innanzitutto un atto di amore con il quale, sull’esempio di S. Paolo “trasmettiamo ciò che abbiamo ricevuto”. Non possiamo dare ciò che non abbiamo, quindi il primo modo per essere missionari è quello di attingere l’amore di Dio, custodirlo, contemplarlo e poi diffonderlo.



L'esempio di S. Teresina di Lisieux

Interessante è il fatto che oltre a S. Francesco Saverio, noto per essere stato missionario, anche S. Teresina di Lisieux fu proclamata patrona delle missioni. Cosa curiosa se pensiamo che questa piccola monaca carmelitana non ha mai lasciato il suo monastero di clausura. Cosa spinse allora Pio XI a dichiararla compatrona delle missioni insieme a S. Francesco Saverio? La risposta si trova in quell'amore infinito che lei aveva per il buon Dio, lei si sentiva amata da Cristo e aveva il desiderio di redistribuire questo amore alle anime. Quale mezzo migliore poteva usare per redistribuire questo amore alle anime? Semplice: pregare per i missionari e offrirsi in sacrificio per la loro opera di evangelizzazione. S. Teresina aveva trovato il modo di essere missionaria pur senza uscire dal monastero. Tutto partiva dall'amore che Dio aveva riversato in lei attraverso la preghiera e l'unione con il Creatore e che lei desiderava far arrivare alle anime. Tutto parte dalla preghiera, e questo S. Teresina lo aveva compreso perfettamente:

«Per me, la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo lanciato verso il Cielo, è un grido di riconoscenza e di amore nella prova come nella gioia; insomma è qualcosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l’anima e mi unisce a Gesù» [1]

Questa unione con Gesù ci fa veramente missionari, ci "dilata l'anima" al punto che non possiamo tenerci questo amore solo per noi, è impossibile! Siamo perciò obbligati a redistribuire questo amore alle anime.

Dobbiamo scrollarci di torno quell’idea malsana che ha il sapore di una tentazione che ci fa credere che bisogna attivarsi fisicamente, economicamente, giuridicamente e civilmente per poter “fare” qualcosa per gli altri. Non è lo zelo pastorale che fa la missione, ma l'amore che spinge ad essere zelanti.



Pregare è l’unica azione necessaria nella missione, tutto il resto è un "di più", o al massimo una naturale conseguenza della preghiera e della nostra unione con il Creatore! Possiamo costruire scuole, ospedali, orfanotrofi, case per anziani, ma tutto questo deve scaturire dalla preghiera a dall’ascolto della volontà di Dio, altrimenti tutto rischia di essere un opera umana frutto delle nostre capacita pratiche, ma svuotate di senso cristiano e cattolico. Lo zelo apostolico ha come fonte l'unione con Dio, altrimenti si riduce a semplice filantropia.



La missione è un atto creativo umano nel quale imitiamo l’atto creativo divino.

Dio ha Creato l’universo intero e l’uomo in particolare perché il suo amore non poteva essere rivolto solo a se stesso, sappiamo che l’amore di Dio Padre si riversa nel figlio attraverso lo Spirito Santo, ma questo atto d’amore è talmente grande che si espande in quella che è la creazione. Dio Crea per un esplosione di amore, la creazione dell’uomo è il punto più alto di questo atto. Dio da forma alle creature e in particolare all’uomo per far si che il suo amore possa essere riversato gratuitamente verso qualcuno di diverso a se stesso. Dio non aveva bisogno di fare questo, ma è stata una conseguenza del suo amore. L’atto ancora più estremo di questo processo è la redenzione dell’uomo da lui creato. Dio non poteva permettere che la sua creatura più perfetta si perdesse dietro colui che si è ribellato a Dio. Ed ecco che avviene la Redenzione come atto supremo e insuperabile dell’amore di Dio.

Nella missionarietà si vive la stessa dinamica: l’uomo caricato dell’amore di Dio per le sue creature, va alla ricerca delle anime lontane dall’amore di Dio, le aiuta e le sostiene attraverso le opere umane e attraverso le opere spirituali, ma il fine ultimo è di carattere soprannaturale; il punto da raggiungere è far conoscere amare e servire Dio in questa vita per poi goderlo nell’altra.

L’amore non è mai infruttifero. L’amore di Dio ha prodotto la creazione e la redenzione, l’amore coniugale porta alla “creazione” della vita, l’amore per Dio porta alla preghiera e all’unità con lui, che porta a sua volta alla creazione di opere di sostegno per più deboli o agli ignoranti, affinché conoscendo l’amore di Dio lo servano volenterosi e si rendano a loro volta propagatori di questo amore.

Nella Missione si sperimenta veramente la paternità e la maternità spirituale verso le anime, è un "commercio" di amore soprannaturale che riempie le anime e stimola l'intelletto umano ad un progresso spirituale e umano capace di edificare secondo la volontà di Dio.



La missionarietà oggi

Questo modo di intendere la missione ci fa comprendere quanto possiamo davvero essere missionari nei luoghi che frequentiamo quotidianamente. La nostra Europa infatti non viene identificata come terra di missione, appunto perché spesso si intende la missione come una somma di azioni volte al raggiungimento del benessere umano e sociale, ma come abbiamo visto la missionarietà cattolica deve partire da altri obbiettivi. Oggi è molto più difficile essere missionari in terre in cui il cattolicesimo è stato soppiantato dal culto della personalità, pertanto è necessario far ritrovare all'uomo occidentale e industrializzato la sua dimensione spirituale partendo dalla quotidianità. Del resto la corsa di molti alla ricerca di filosofie orientali che portino ad un'esperienza spirituale è sintomo di un vuoto che si cerca di colmare con ciò che non è verità.

Su questo campo dobbiamo tornare ad essere missionari, nelle nostre terre di tradizione cattolica in cui si è cattolici solo per consuetudine e non per convinzione. Dobbiamo tornare a parlare di anima, di spirito, di vita eterna, di verità, non una verità fra tante, ma della Verità unica e indiscutibile di Cristo Gesù. Siamo chiamati ad essere portatori di questa verità che salva l'uomo. Dobbiamo farlo con quel desiderio di portare le anime a Cristo; fonte di un amore infinito. Non c'è pregiudizio che tenga davanti all'amore di Dio, dobbiamo quindi farci missionari in questa Europa scristianizzata attingendo all'amore di Dio tramite la preghiera e la perfezione spirituale, per poi redistribuire questo amore a questa umanità sofferente.


don Bastiano Del Grillo


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Note:

[1] Teresa di Gesù Bambino del Volto Santo, MsC 25r°-25v°, OPERE COMPLETE, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni OCD, Roma 1997, p. 263.




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domenica 19 ottobre 2025

Pillole di liturgia. L'ALBA (o camice). Storia uso e significato.


Continuiamo la rubrica dedicata alla liturgia e in particolare ai paramenti liturgici. Procediamo seguendo l'ordine con cui si indossano, quindi dopo aver descritto l'Amitto (qui) descriviamo L'ALBA, o più comunemente chiamato CAMICE.

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L'alba o il camice liturgico, per come lo conosciamo noi oggi, è un paramento di lino bianco con maniche chiuse e lungo fino quasi ai piedi. Esso viene serrato in vita da un cingolo.

 

Ma anticamente con quale nome è stato conosciuto?

 

Anticamente il camice liturgico era conosciuto con vari nomi: tunica linea dal suo materiale; tunica talaris o semplicemente talaris da tali cioè caviglie poiché esso raggiungeva i piedi.

 

Ma anche alba cioè bianco dal suo colore, ovvero alba romana per distinguerla dalle tuniche più corte usate nell'antica Roma. Non è un caso che in inglese ancora oggi, quello che noi chiamiamo camice, sia detto alb.

 

 

L'ORIGINE DEL CAMICE LITURGICO FORMA ED UTILIZZO DEL CAMICE NELLA VITA QUOTIDIANA DEGLI ANTICHI ROMANI

 

A onor del vero questa variante, cioè quella più tarda con le maniche, non fu inizialmente ben vista. Essa venne per lungo tempo vista come un vestiario voluttuoso ed effeminato. In un certo senso, la prima traccia di "impiego liturgico" di questa tunica, la si deve a San Cipriano da Cartagine. Si racconta infatti che si accinse al martirio vestito con questo indumento sormontato dal byrrhus (un ampio mantello). Questo è uno snodo importante: sin dagli albori si verifica una confusione tra dalmatica e camice. Certo un broccato dorato è molto più appariscente, ma ad esempio un merletto in Gros Point de Venice fatto a mano, esprime una maestria ed una dignità liturgica eguale se non superiore alle tessiture di un tempo.

 

LE PRESCRIZIONI SUL CAMICE LITURGICO

L'alba o camice, deve essere di materiale nobile, perché nobile è la dignità degli atti che vengono officiati con essa. Tutti gli altri materiali e colori sono esclusi, eccezion fatta per singole situazioni come per la Cina e i paesi orientali in genere, dove vi sono usanze e simbolismi particolari.

 

 

IL SIGNIFICATO DEL CAMICE LITURGICO OGGI

 

E' impossibile parlare con certezza delle origini di questo paramento. I liturgisti medioevali, che sono alla base dell' iconografia dei mosaici ad esempio ravennati, ritengono di rinvenire la sua origine nel Kethonet, ovvero una tunica di lino bianco di cui si parla nell'Esodo.

 

A onor del vero una tunica di lino bianco è anche parte dell'abbigliamento ordinario sia dei Romani che dei Greci ai tempi dell'Impero. Dunque è molto probabile che si debba guardare a questo indumento civile per rinvenire le origini del camice liturgico, tanto che se volessimo essere precisi allora dovremmo convenire sul fatto che è nelle parole di Trebellius Pollio che abbiamo una chiara prima indicazione di un'alba subserica ( parliamo circa del 260 d.c.).


CAMICE SACERDOTALE

 

La tunica talaris era la tunica più lunga e solenne. Era bianca ed utilizzata nelle occasioni più importanti, a differenza di quella corta, usata sostanzialmente per l'impiego comune.

 

La tunica dei senatori e dei cavalieri poi era caratterizzata da due strisce di colore rosso più ampie nel primo caso (lati clavi), più strette nel secondo caso (angusti clavi), che dal davanti attraversavano le spalle e scendevano dietro fino a raggiungere il fondo della veste stessa.

 

La tunica era originariamente senza maniche. Soltanto successivamente e progressivamente essa fu dotata di maniche. La versione più antica cioè quella senza le maniche era chiamata colobium, un aggettivo latino che derivava direttamente dal greco e significava appunto mozzato o decurtato. La tunica con le maniche era chiamata tunica mancata o anche tunica dalmatica, dal nome della provincia Dalmazia nella quale si ritiene sia nata.

 

A papa Silvestro si deve un primo passo verso il chiarimento dell'impiego del paramento, allorché ordinò che i diaconi dovessero tassativamente utilizzare la dalmatica in chiesa e che la loro mano sinistra fosse coperta con il manipolo.




 

Fino al XII secolo, tutti i chierici indossavano questa tunica-dalmatica. Essa era molto ampia, poiché al disotto, venivano indossati gli altri paramenti. Considerando anche la ricchezza dei tessuti impiegati, ad un certo punto ci si rese conto che per riti come l'immersione battesimale, il celebrante era letteralmente impedito nei gesti.

 

Era giunto il momento di derivare dalla tunica dalmatica, l'alba ovvero il camice liturgico per come lo conosciamo noi, ben più aderente e leggero.

 

Si passa così da un uso civile, abituale e quotidiano ad un uso esclusivamente liturgico dell'alba. Mentre la tunica dalmatica era realizzata con ricchi tessuti di seta, broccati e damaschi riccamente decorati sul collo, sui polsi e sul bordo inferiore, il camice liturgico iniziò ad essere adornato solo di ricami e pizzi.

 

Quando dico adornato "solo" di ricami e pizzi, ovviamente esemplifico. Sarebbe riduttivo affermare che taluni di questi camici fossero e sono ancor oggi meno solenni e degni rispetto a quelli delle origini.

 

Per non parlare degli sfilati a mano, delicati e pazienti lavori sempre più rari, poiché quella maestria e pazienza spesso solo monacale, sta cadendo nel dimenticatoio.

 

A partire dal decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 1819, il camice liturgico deve essere di lino bianco o cotone o al massimo lana.

 

Non mi dilungo sulla cattiva abitudine di usare poliestere e altri materiali di bassa qualità per confezionare il camice. Esso ha la stessa dignità liturgica della casula o del piviale, ma siccome viene nascosto, allora lo si sottovaluta.

 

Possiamo fare riferimento alle parole di Papa Innocenzo III (1198-1216) per affermare che il bianco della veste indica purezza e nuova vita. Questo fu esemplificato attraverso la pratica di vestire di bianco i neo battezzati usando queste parole: "Ricevi questa veste bianca ed immacolata che tu indosserai fino al giudizio di Nostro Signore Gesù Cristo, che tu possa avere vita eterna. Amen." Similmente nel Messale Romano mentre il sacerdote indossa l'alba recita la preghiera di seguito riportata, che sottolinea la simbologia del candore dell'anima ottenuto dal sangue dell'Agnello immolato, simbologia strettamente legata al sacrificio della Messa che il sacerdote offre rivestito appunto dell'alba e degli altri paramenti.





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Fonti:

paramentisacri-caliciargento.it

Mario Righetti, STORIA LITURGICA. vol. 1 pagg. 592, 593.




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